Di seguito, il testo di unintervista che Gerolamo Fazzini mi ha fatto, apparsa sulla rivista Mondo e Missione di ottobre 2011 (qui larticolo in PDF con le foto).
Si tratta di un estratto di una lunga chiaccherata, quasi un bilancio degli 11 anni e più di missione e oltre 20 di sacerdozio missionario. 

Nelle foto: durante una celebrazione, e insieme a p. Gianni Giomo, PIME, mio compagno di missione a Pirambú.
(Foto Marco Baldan e Federica Piva) 

 

«Il centuplo quaggiù? I volti delle persone»

 Sognava lAsia, è finito in Brasile. Padre Natale Brambilla racconta la sua storia, dalla vocazione alla partenza per il Brasile. Dal 2009 opera a Pirambú, nel Nord-Est del Paese, in una nuova presenza del Pime, per lanimazione missionaria e vocazionale. 

Suo papà sognava per lui un futuro da ragioniere nella ditta di famiglia. Lui, a sua volta, si vedeva in Asia. È finito in Brasile, al 75% popolato da cattolici. «Ma col tempo Dio mi ha fatto capire che la missione è cosa sua, è lui il protagonista. Noi vediamo le cose stando a valle, mentre Dio lo fa dalla montagna».

Padre Natale Brambilla, 48 anni, brianzolo di origine, da 11 anni si trova in Brasile. Dopo un periodo nella parrocchia Nossa Senhora Aparecida, nella periferia sud di San Paolo, e un servizio di animazione vocazionale nel centro di animazione Pime di Ibiporã, 600 km a ovest di San Paolo, dal 2003 al 2009 ha guidato la parrocchia S. Francisco Xavier in San Paolo. Da due anni opera a Pirambú, in una nuova missione del Pime, aperta insieme al confratello Giambattista Giomo nello Stato del Sergipe. 

Perché questa scelta?

«Abbiamo aperto questa nuova presenza nel Nord-Est del Brasile su richiesta di mons. Mario Rino Sivieri, vescovo di Proprià, fidei donum della diocesi di Biella. Il vescovo chiedeva un aiuto sul versante della dimensione missionaria (animazione, formazione dei preti…), il Pime cercava uno spazio di presenza nel Nord Est. Questi due desideri si sono incontrati e così abbiamo assunto la guida di una piccola parrocchia di 8.000 abitanti».

Che significa per un missionario lavorare nel Brasile a larga maggioranza cattolico? 

«Attenzione, le statistiche non devono trarre in inganno. In Brasile la popolazione è sì in larga parte cristiana. Tuttavia, proprio lo scorso anno, in una cappella dell’interno nella nostra nuova missione, mi sono trovato a dover insegnare le risposte della Messa all’assemblea che non le conosceva… Mi sono fermato, durante la Messa, per dire: “adesso ripetete con me: “Santo, Santo, Santo…”. Mi pare eloquente…». 

Come si può educare alla dimensione missionaria in una situazione, come quella del Sergipe, segnata dalla povertà? Non è un lusso? 

«Una cosa che non manca in Brasile è la generosità, la voglia di donarsi e comunicare la fede, mentre qui in Italia respiro una certa opacità, un timore diffuso. Il problema della missione in Brasile non è legato all’entusiasmo, ma al fatto che quella Chiesa non è abituata a pensare all’ad extra. Il massimo della missione per un brasiliano è lasciare il Sud e andare in Amazzonia. Ma questa logica del dono di sé, del darsi senza limiti, uscendo dai propri confini e culture, è vitale per la Chiesa. Però va detto che la situazione pian piano sta cambiando: nel 2007 la Conferenza di Aparecida (il quinto incontro dei vescovi dell’America Latina) ha dato un impulso notevole, e sta creando, poco a poco, la coscienza del dovere di essere “discepoli missionari di Cristo”». 

In un contesto del genere si apre uno spazio inedito per il Pime…

«Sì. La nostra presenza è sempre più ricercata e apprezzata, perché sanno che abbiamo nella missione il centro della nostra stessa vocazione. Quando parlo di missione vedo occhi brillare. Dopo due anni in Sergipe, due giovani hanno espresso il desiderio di diventare missionari. Non hanno un’idea precisa di cosa sia l’ad gentes. Ma per loro questa parola ha già un fascino, vogliono rischiare la vita».

Perché oggi questo stesso Vangelo sembra invece attrarre così poco i giovani in Europa e nella stessa Italia? 

«Credo che le cause siano molteplici: un calo generale della “temperatura” della fede, unito al fatto che la cultura è molto meno cristiana oggi. Decenni di attività di denigrazione della Chiesa hanno lasciato il segno. In Brasile, ad esempio, per gli intellettuali parlar male della Chiesa è una moda. Continuamente i media mettono in evidenza i difetti della Chiesa. Se una viene dalla Chiesa, è, di per sé, faziosa, arretrata, da Medioevo… La verità è che vogliono tapparci la bocca e non riconoscono ciò che di buono la Chiesa ha fatto e fa. In Italia mi pare di vedere ora i risultati negativi di un meccanismo simile, in atto da molto tempo.

Padre Natale, come è nata la tua vocazione?

«Sono cresciuto in una famiglia cattolica praticante della Brianza. A sedici anni, dopo la morte di un mio grande amico in un incidente stradale, ho vissuto uno shock e dentro di me sono esplose molte domande. Nell’aprile 1983 ho partecipato ad un Girmi (Giorni di Ricarica Missionaria) promosso dal Pime a Sotto il Monte, ed è stata la svolta della mia vita. Sono tornato a casa con due certezze: che Dio esiste davvero, e che mi ama così come sono. Da lì è sorto desiderio di ricambiare il suo amore. Come? Con l’aiuto di un padre, è cominciato il mio itinerario vocazionale, spinto dal desiderio di donarmi totalmente. Questa parola, “totalità”, è quella che più mi ha trascinato». 

Perché proprio missionario? 

«All’inizio Dio, per affascinarmi all’ideale missionario, si è servito della mia passione per i viaggi. Poi mi ha fatto intuire che il missionario è colui che comunica agli altri – soprattutto a quelli che non lo conoscono – la gioia che ha dentro per l’esperienza di Dio che fa. Questa mi è sembrata la forma più alta di donarmi a Lui e agli uomini». 

Quando ha deciso di entrare in seminario, quali sono state le reazioni in famiglia?

«Sono figli di artigiani. Per la mia famiglia è stata un po’ uno shock. Papà, in particolare, ha faticato ad accettare la mia scelta, mi vedeva come futuro della ditta. Ho capito che per seguire Dio dovevo accantonare la fretta e aspettare i suoi tempi. Una volta entrato in seminario, mio papà si è rasserenato: è stata una conversione anche per lui. Nell’ambiente di lavoro alcuni hanno accettato la mia decisione, altri l’hanno criticata. Non è stato facile. Ma come dice il vecchio Simeone: “Per mezzo di questo bimbo saranno rivelati i pensieri di molti cuori”. Quando seguiamo Dio, intorno a noi si disvela il cuore delle persone». 

Comè continuato il cammino?

«Dopo il seminario a Monza e Milano, e l’ordinazione nel 1990, ho lavorato per 7 anni nell’animazione vocazionale e missionaria a Sotto il Monte. Poi, nel 1999 l’arrivo in Bangladesh, dove però ho incontrato alcune difficoltà non previste. Nel maggio dell’anno successivo ero già in Brasile sud».

Come ricordi il tuo impatto col Brasile?

«Per uno che, come me, aveva sempre sognato l’Asia, l’ad gentes “puro”, devo dire che all’inizio non è stato facile accettare di essere in Brasile. Mi guardavo attorno con perplessità, vedevo in ogni angolo una chiesa cristiana, un segno religioso… La prima reazione è stata quella di chiedermi: “Cosa ci faccio qui? Qui non c’è bisogno di me!” Ma è bastato cominciare a seguire i confratelli nelle favelas della metropoli per capire. Il nostro popolo è si, cristiano, nel senso di battezzato. Ma poi… manca il resto». 

Eppure, nonostante tutte le sue pecche, la Chiesa brasiliana è viva, dinamica. Cosa ha da insegnare a quella italiana? 

«Il protagonismo dei laici è la ricchezza principale che io ho trovato in Brasile. Qui in Italia siamo troppo clericalizzati e questo ha portato alle chiese vuote. I poveri preti si ammazzano di lavoro, ma serve a poco. Come Chiesa italiana siamo vergognosamente clericali, mentre in Brasile i laici hanno più spazio. Penso a Maria, una donna non sposata che, praticamente da sola, ha costruito la comunità. È un segno concreto della presenza di Dio. È sintomatico come queste persone sorgano proprio quando c’è assenza di preti. A volte la presenza eccessiva di sacerdoti inibisce il fiorire di persone con carismi così importanti». 

Un altro aspetto che spesso viene sottolineato molto è la profonda religiosità del popolo brasiliano. Tu ne hai fatto esperienza?

«Sì, posso dire, per quel che ho visto, che il brasiliano sa di aver bisogno di Dio. Io sono costantemente richiamato dalla gente che prega e dalla fiducia costante che la gente semplice manifesta nella presenza di Dio nelle loro vite. Una volta una giovane donna incinta mi riceve in casa per una benedizione e rimane colpita perché per la prima volta un prete entra nella sua casa. Io, sorridendo, mi schermisco, dicendo che si essere solo un uomo… Ma lei, seduta sul suo divano consunto, replica a bassa voce: “Ma non è scritto nel Vangelo che ’Chi accoglie voi, accoglie me’? Per me, oggi Dio è entrato nella mia casa.” Sono rimasto in silenzio e ho dato la benedizione. Ho capito che la sua fede era molto più semplice ma, credo, più grande della mia. Una fede senza fronzoli, più immediata e pura della mia. Un altro episodio, di qualche anno fa. Per abitudine, durante la Messa, tenevo d’occhio l’orologio perché l’omelia non superasse i 10-15 minuti; a volte concludevo dicendo che il tempo era terminato. Una volta una signora si è alzata e mi ha detto: “Ma padre, noi non abbiamo fretta. Può continuare”. È stata una lezione». 

Quello brasiliano è un popolo sensibile, attento alla dimensione emotiva. È per questa ragione che per te larte, la fotografia sono diventati strumenti per comunicare il Vangelo?

«Ho una passione per la fotografia, nata forse dalla constatazione che una foto ha la capacità di fissare un momento e di renderlo poi immortale. In Brasile ho scoperto che le persone sono molto attratte dall’arte e, anzi, hanno la capacità straordinaria di usarla per comunicare il Vangelo. In fondo l’arte trasmette la bellezza di Dio. Quando operavo in favela mi dicevo: se riesco ad abituare la mia gente al bello (anche con gesti quotidiani all’apparenza semplice, raccogliendo l’immondizia, curando la pulizia…) preparo il cuore per Dio. L’arte è un linguaggio che predispone il cuore a entrare in contatto con Dio. Anche chi lo rifiuta può amare una bella canzone. L’arte, quindi, non è un lusso. La maggior parte dei problemi, ivi compresi quelli “strutturali”, dipende dalla nostra incapacità di vivere delle relazioni di amore. Se dunque l’arte affina l’anima, la fa crescere in umanità, diventa importante. La bellezza è un diritto. Chi ne viene a contatto sente che la sua anima sta contribuendo a mostrare la bellezza di Dio». 

La Chiesa italiana ha scelto come motto per il decennio 2010/20 “Educare alla vita buona del Vangelo”. Come vedi, concretamente nella tua missione quotidiana, la “vita buona” del Vangelo?

«Per me significa veder fiorire le persone. Vedere i giovani scoprire i loro talenti, sentirsi realizzati: è una delle esperienze più belle. La parrocchia è un ambiente in cui è possibile investire nelle persone per fare questo cammino. Dove si creano le condizioni giuste, una persona può realizzarsi. E l’investimento educativo fatto “ritorna” in pieno. Penso a Gledson, un ragazzo difficile che abbiamo assunto all’asilo; ora è iscritto all’università, impegnato in parrocchia ed è diventato un trascinatore. La persona contenta, realizzata diventa contagiosa». 

Qual è secondo te la dote rincipale di un buon educatore?

«La virtù dell’empatia. Ogni persona è un universo e qui sta il fascino dell’educazione. Come educatore so di aver davanti a me un’opera di Dio e quindi mi devo interrogare  sul progetto che Lui ha su quella persona e, insieme all’interessato, cercare di scoprirlo. Ecco perché diventa fondamentale entrare in sintonia profonda con l’altro: l’empatia, appunto». 

Dopo vent’anni di vita sacerdotale, senti di aver realizzato i tuoi sogni? Cos’è per te il “centuplo quaggiù” che Cristo promette a chi si dà a lui?

«Dio è molto esigente, ma non si lascia superare in generosità. Mi ha dato molto, molto di più di quel che gli ho donato io. Se penso al “centuplo quaggiù” mi vengono in mente i volti delle persone in Brasile a cui ho dedicato tempo e che per aiutarmi darebbero… la vita. Penso anche a tanti che cercano Dio, anche senza saperlo, a cui ho potuto dare un piccolo contributo in questa ricerca… Certo, quando Dio chiede, lo fa senza mezze misure. A volte chiede di “tagliare”. Ecco, se ho dei rimpianti è non aver “tagliato” abbastanza per seguire Lui». 

Sei contento di essere missionario?

«Si, molto. Non sono contento di tutto quello che compio come missionario. Vorrei fare cose che dicano di più Dio. Spero solo che la gioia che ho dentro sia visibile anche al di fuori».